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sabato 31 ottobre 2020

Another Door

Nono capitolo



Loran doveva muoversi in fretta, quella faccenda poteva risolversi in brevissimo tempo, ma lui doveva agire da solo e in via non ufficiale. Chiamò Jessica, l’unica di cui poteva fidarsi.

«Jessica, prendi questa telefonata dove nessuno possa sentirti.» Jessica non pronunciò il suo nome e si spostò nell’ufficio a fianco.

«Sono sola, puoi parlare.» Loran si era appena infilato nell’auto.

«Sto andando a Staten Island, a parlare con Rocco Gentile. Se tra due ore non ti richiamo fai partire le ricerche, perché significa che l’incontro non è andato bene.» Jessica imprecò mentalmente.

«Cazzo Loran! Ok, ok, non ti chiedo neppure il perché, ma stai attento.» Loran sorrise, sapeva di averla appena messa in una posizione difficile, ma era pur sempre il suo capo, non ne avrebbe comunque avuto nessuna conseguenza, anche se lo avessero fatto fuori. Sarebbe stato un vero peccato se non ce l’avesse fatta, gli sarebbe davvero piaciuto, vedere se lui e cioccolatino fossero davvero compatibili, magari lo avrebbe sentito un’ultima volta. Compose il suo numero.

«Loran?» anche solo sentire quella voce così calda, gli si muoveva qualcosa e non solo nelle parti basse.

«Volevo solo sentire la tua voce. E volevo che mi facessi gli auguri.» John sorrise, spostandosi in cucina.

«Auguri. Cos’è il tuo compleanno?» John si era seduto, non si aspettava certo una sua telefonata così presto.

«No, sto per fare una cosa un po’ fuori dalle righe e ho pensato che i tuoi auguri mi potessero servire. Stanotte vai a dormire a casa, non ho la più pallida idea di quando tornerò.» una strana sensazione s’impossessò di John, quello aveva tutta l’aria di un addio.

«D’accordo, ma poi non ti lamentare se troverò qualcun altro con cui passare la notte.» Loran si passò la lingua sulle labbra, quanto gli piaceva giocare con lui!

«Legno o cuoio?» John rimase un attimo zitto, domandandosi cosa intendesse.

«Prego?» Loran sorrise, immaginandolo sopra le sue ginocchia con il sedere rosso fuoco, chissà se anche ai ragazzi di colore diventava rosso vivo, si chiese, sperava di scoprirlo presto.

«Hai appena fatto incazzare il tuo master paventandogli un tradimento, secondo te di cosa parlo?» John capì di avere appena guadagnato una punizione.

«Cuoio?» ne aveva giusto uno abbastanza ruvido da sembrare di legno, il paddle giusto per lui.

«Ok, puoi restare ad aspettarmi. Ora fai il bravo e mantieni tracciato sia il mio telefono che la mia auto, potrei averne bisogno.» chiuse la chiamata senza attendere la risposta, era a un isolato dalla villa dei Gentile, era una pazzia, ma non aveva alternative.

Il suo Suv si parò davanti al grande cancello della villa della famiglia Gentile. La telecamera lo inquadrò e due guardie, corredate di grossi molossoidi, vennero davanti al cancello.

«Chi è lei?» Loran si tolse i suoi Ray-Ban a specchio e sfoderò il suo miglior sorriso.

«Sono il comandante di sezione della CIA, Loran O’Reilly, avrei bisogno di parlare urgentemente con Don Rocco Gentile.» dopo dieci minuti buoni il cancello si aprì. Percorse il lungo viale che lo portò davanti all’entrata della villa, ricordava le ville padronali siciliane della fine dell’ottocento. Lo vennero a prendere le stesse guardie che aveva visto all’entrata.

«Don Gentile l’attende. Ci segua.» Loran li seguì all’interno, fino all’uscita che dava sul retro.

«Don Gentile è lì fuori, nel giardino.» Loran uscì dalla porta finestra del retro, ritrovandosi davanti ad un grande orto. S’incamminò per il sentiero che lo costeggiava, vedendo in lontananza qualcuno che stava armeggiando su un filare di uva.

«Comandante O’Reilly, venite.» Loran si avvicinò. Aveva visto le foto del capo, di quella che era considerata una delle famiglie mafiose più potenti degli U.S.A., ma ora che era davanti a quell’anziano uomo che stava innestando una vite, non poté pensare al boss, ma solo all’uomo, e provò una certa simpatia per la semplicità di quell’accoglienza.

«Si nun ci pinsu i a la vigna tutti cosi a buttani finiscinu!» Loran strabuzzò gli occhi, non aveva capito assolutamente nulla di ciò che stava dicendo Rocco.

«Eh, non conoscete la mia lingua. Dicevo che se non ci penso io alla vite finisce tutto a puttane.» Loran fece un mezzo sorriso, avrebbe scommesso che in quella frase ci fosse molto di più che un riferimento alla pianta.

«Venite, fa caldo, andiamo a bere qualcosa di fresco.» lo guidò sotto un pergolato, che profumava del glicine che l’aveva ormai invaso. Sul tavolo si erano materializzati due bicchieri e una caraffa di limonata ghiacciata.

«Bevete, sono i limoni della mia Sicilia.» Loran si servì un bicchiere gustandosi quel sapore aspro e dissetante.

«Allora, cosa può volere da un vecchio siciliano un giovane irlandese?» Loran appoggiò il bicchiere sul tavolo.

«Don Gentile, credo che abbiamo un problema in comune. Vorrei unire le nostre forze per risolverlo, evitando di portare disonore alla vostra famiglia.» Rocco lo guardò, sapeva di cosa stesse parlando, aveva spie ovunque, anche se ancora non aveva avuto modo di parlare con il diretto interessato, visto che era sparito.

«Ehh, tengo tanti problemi. Come la vite.» Loran bevve un altro sorso di limonata.

«GENNARO! Portami na buttigghia ri chiddu bunu!» Loran friggeva, ma sapeva di dover assecondare il Don, metterlo nella condizione di saggiarlo faceva parte del gioco. Un ragazzo molto giovane, che ricordava nei lineamenti il boss, portò una bottiglia di vino fatto in casa e due bicchieri.

«Nonno, accura ca siddu sinn'adduna Sofia su guai.» il Don fece segno al ragazzo di tacere.

«Nun mi puzzu mettiri a parrari r'affari vivinnu limunata.» il ragazzo rientrò sorridendo. Il boss riempì i bicchieri.

«Alla salute!» ingollò tutto il bicchiere, per poi riempirlo nuovamente, quando ancora quello di Loran era appena a metà.

«Sentite quel lieve sentore di frutta che esplode in bocca? Sono state le mie mani a crearlo. È un’arte. Lè ddu picciriddu che ci ha portato la bottiglia, ha già imparato a farlo. Innestare la vigna non è cosa facile. Devi averlo nel sangue.» Loran si gustò il resto del liquido quasi ambrato.

«Gennaro, figlio di vostra figlia, Maria, sangue del vostro sangue. Se non sbaglio avete altri due nipoti piccoli, Rocco Jr e Sofia.» al vecchio s’illuminarono gli occhi.

«Vostra figlia meriterebbe un marito migliore. Lo sapete vero, Don Gentile?» l’anziano boss distolse lo sguardo perdendosi a rimirare il suo orto, e senza guardarlo in volto disse:

«Maria era giovane, speravo che col tempo Vincent mettesse la testa a posto. Ma non è stato così. In che modo possiamo risolvere questo problema.» Loran capì in quel momento che sarebbe andato tutto bene.

«Ho bisogno solo che mi diciate dove si trova, e che inviate i vostri uomini in ritardo. Al resto, ci penserò io.» il vecchio annuì.

«Meglio una figlia vedova che disonorata. Appena avrò questa informazione vi chiamerò personalmente. Ma voglio la vostra parola che nessuno saprà mai di questo accordo.» Loran gli tese la mano.

«Avete la mia parola Don Gentile. E la mia gratitudine.» gli tese la mano, e il boss inaspettatamente lo attirò verso di sé, sibilando.

«Se non manterrete fede alla vostra parola, farò in modo che non potrete più parlare.» Loran lasciò sul tavolo il suo biglietto da visita e venne scortato alla sua auto. Ora doveva solo attendere.



Jake era riuscito a dormire per poco più di un paio d’ore, aveva visto la luce filtrare dalle persiane chiuse, e si era addormentato. Venne svegliato bruscamente da Vincent, che non era solo.

«Ora ti lascio nelle mani dei miei picciotti, io ho un appuntamento, ma torno il prima possibile.» il ghigno che gli si dipinse sul volto, lasciava ben poco all’immaginazione, Jake rabbrividì al solo pensiero. Lo slegarono, permettendogli di restare in bagno tutto il tempo che gli serviva. Gli avevano anche consegnato un cambio di vestiti. Ritornato in stanza trovò da mangiare, ma loro erano ancora lì, non poteva fare altro che mangiare e rimettersi sul letto, dove lo legarono di nuovo.

«Posso almeno avere qualcosa da leggere? Che ne so, un quotidiano!» il più grosso di loro, lasciò la stanza, ritornando con The Wall Street Journal e The New York Times. Sistemarono le corde, facendo in modo che potesse, almeno con una mano, sfogliare i giornali e poi lo lasciarono solo. Per un po’ finse di leggere l’articolo di apertura, temendo che lo tenessero d’occhio, poi i rumori si fecero più lontani e, quando si sentì più tranquillo, andò alla pagina dei necrologi.



Anniversario di morte

Vedova Rissa James

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Ti ricordano con amore tutti i tuoi cari



Si appoggiò sul cuscino, aveva così sperato che Harper se ne fosse ricordata! Era una cosa di cui avevano parlato, scherzando sul fatto che entrambi conoscessero l’alfabeto morse, si erano pure scambiati alcuni biglietti sfidandosi a tradurli. Le aveva detto scherzando, che se un giorno ne avessero avuto bisogno, avrebbe contato sul fatto che potevano parlarsi mettendo delle inserzioni nella pagina dei necrologi, come facevano le spie durante la guerra fredda. Non poteva crederci, se n’era ricordata. “Mark sta bene”, quella era la benzina che gli serviva per resistere e ritornare da lui.



Vincent aveva deciso di non informare Rocco per telefono, non aveva paura del vecchio Don, era il marito di sua figlia, poteva anche incazzarsi, ma non gli avrebbe mai torto un capello. Arrivò alla villa che ormai stava scendendo la sera, sapeva che l’avrebbe trovato attaccato alla sua vigna.

«Rocco, ancora qui stai!» il Don non distolse lo sguardo dal suo innesto, non ne valeva neppure la pena, visto che per lui quello era un morto che camminava ormai.

«Ormai ti davo per morto. Runni Finisti? Maria era preoccupata.» ora doveva metterla giù bene per evitare di farlo incazzare.

«Hanno arrestato Svetlana e Vinnie, una retata. Io sono riuscito a sfuggire per un soffio. È stata colpa di un cazzo di agente infiltrato. Perciò ho colto l’occasione, ho rapito il suo compagno e li ho ricattati.» il vecchio boss si era fermato, ora lo osservava.

«Continua.» andarono a sedersi sotto il pergolato.

«Non ha funzionato, mi hanno individuato e ho preso in ostaggio quel rottinculo dell’agente infiltrato.» il Don scosse la testa.

«Svetlana e Vinnie, sono già fuori su cauzione. Stiamo organizzandoci per prelevarli. Manderò a prendere il tuo ostaggio e vedremo di farlo sparire. Ora vai da mia figlia, domani risolveremo tutto. Oppuru ti piacissi cchiossà iriti a futtiri a ddu sbirru?» Vincent sbiancò, non poteva sapere che a lui piaceva scoparsi gli uomini!

«Ma chi stati ricennu?? Ci vediamo a cena.» Vincent si stava per alzare, ma Rocco lo trattenne per la giacca.

«Se ti azzardi un'altra volta a prendere un’iniziativa senza avvertirmi, Se canni i macellu, u capisti?!» Vincent, da bravo attore consumato gli prese la mano e la baciò.

«Non succederà più, Don Gentile.» il vecchio boss osservò Vincent allontanarsi, pensando con soddisfazione, che quella sarebbe stata l’ultima sera che avrebbero trascorso insieme e, per uno strano caso del destino, per questo, avrebbe dovuto ringraziare la CIA. Scoppiò a ridere da solo fino alle lacrime.

Quando Vincent, il mattino successivo, se ne andò, il boss chiamò Loran.

«Long Beach, S 9th Pl, la casa con le finestre rosse. Noi andiamo a fare le pulizie oggi pomeriggio, dopo essere passati a prendere Vinnie e Svetlana. Un uccellino mi ha detto che l’interpol ha arrestato suo marito, è vero capitano?» Rocco sperava che fosse vero, perché avrebbe voluto dire chiudere definitivamente la faccenda, seppellendo letteralmente quei due sotto sei metri di terra.

«Quell’uccellino è ben informato Don Gentile. Sono tutti finiti in galera, non penso che usciranno presto.» il boss sospirò soddisfatto.

«È stato un piacere fare affari con lei, capitano.» chiuse la chiamata, sentendosi più leggero.



Mark sarebbe stato dimesso il giorno dopo, se fosse stato per lui avrebbe firmato e se ne sarebbe andato in quel preciso momento, rimanere lì dentro, senza avere alcuna notizia di cosa stesse accadendo, lo faceva impazzire. Il suo telefono vibrò, distogliendolo dai cattivi pensieri.

«Hey Loran hai novità?» Loran era pieno di adrenalina, ed era già in viaggio per Long Beach.

«Sto andando a prenderlo.» riattaccò. Mark si staccò la flebo, e scese dal letto. Si vestì il più velocemente possibile. E chiamò un taxi. Non sarebbe rimasto lì ad aspettare notizie, sarebbe andato all’appartamento, dove sicuramente c’erano ancora John e Harper.



Vincent partì dalla villa del boss alle prime luci dell’alba, voleva andare a godersi la sua preda, prima che suo suocero venisse a prelevarla. Mezz’ora dopo entrava nella villetta sulla spiaggia. I suoi tirapiedi erano in cucina a guardare le notizie dal piccolo televisore.

«Ragazzi, andate a fare colazione al bar, qui ci penso io. E fate con calma.» i due uscirono lasciandolo solo. Andò nella sua stanza e si fece la doccia. Chiuse la porta a chiave e, con solo l’asciugamano a coprire i suoi genitali, aprì la stanza dove era incatenato Jake. Stava dormendo, si fermò ai piedi del letto. Era un vero peccato che quella fosse l’unica volta che poteva godere di quel corpo. Era proprio il suo tipo quello, non vedeva l’ora di mettergli il cazzo in ogni buco. Al solo pensiero era già duro come una roccia. Si avvicinò alla testa di Jake lasciando cadere l’asciugamano a terra. Posò un ginocchio sul letto per abbassarsi e gli appoggiò l’uccello sulle labbra. Jake aprì gli occhi, sottraendosi all’istante da quel contatto nauseabondo.

«Sarà meglio che non fai lo schizzinoso, agente Johnson. O preferisci il gioco duro?» Jake salutò mentalmente Mark, era ormai chiaro che, se lo voleva violentare, di lì non ne sarebbe uscito vivo, tanto valeva cercare di resistere il più possibile.

«Meglio che mi ammazzi ora Vincent, perché se solo ti avvicini ti stacco la pelle a morsi.» gli ringhiò contro. Vincent si buttò su di lui schiacciandolo con tutto il suo peso. Prese l’asciugamano da terra e gliel’infilò in bocca.

«Questa sarà l’unica cosa che morderai, invece io… ora ti apro il culo.» Jake continuava a muoversi, per quanto potesse, per cercare di sfuggire all’inevitabile.



Mark suonò il campanello, sperando di non essersi sbagliato a pensare che i suoi amici fossero ancora lì. John lo vide dalla finestra e gli aprì.

«Mark, ma ti hanno già dimesso?» gli chiese John, mentre gli faceva spazio per entrare.

«Diciamo di sì. Loran è già arrivato a Long Beach?» chiese poi rivolto a Harper. Lei girò lo schermo del computer. Lui e la sua squadra erano quasi arrivati. Si sedette a fianco della ragazza, e iniziò a pregare.



Loran aveva individuato la villetta sulla spiaggia, avevano parcheggiato nella via a fianco e ora si stavano avvicinando, cercando di dare poco nell’occhio. L’unico accesso era sul davanti, tramite una scala di legno. Sapeva che con Vincent ci sarebbero stati altri due o tre uomini. Lasciò due dei suoi ai lati della scala e salì con gli altri due. La porta d’entrata aveva una serratura che poteva essere forzata facilmente. Non c’era anima viva. Per un attimo pensò che Don Gentile lo avesse attirato in una trappola, ma un rumore al piano superiore catturò la sua attenzione. Lasciò uno dei suoi al piano terra e salì con l’altro le scale.



«Vedrai quanto ti piacerà Jake!» qualcosa di freddo si appoggiò sul suo culo.

«Togli il tuo uccello da lì immediatamente e, forse, dico forse, non ti farò tanto male.» il corpo di Jake, sentendo la voce del suo capitano, si rilassò. Vincent si mise a sedere sul letto alzando le mani.

«Capitano Loran, assolutamente inopportuno.» Loran si spostò verso Jake. Gli tolse l’asciugamano dalla bocca.

«Bello vederti.» gli disse Jake, sollevato.

«Scusa.» gli gettò l’asciugamano sulla faccia e sparò un unico colpo in mezzo alla fronte di Vincent, che cadde con un tonfo ai piedi del letto. Tolse l’asciugamano dalla faccia di Jake.

«Loran?!?» il capitano gli slacciò i polsi e le caviglie.

«Mentre ti stavo per slegare lui ha tentato di uccidermi, ho dovuto sparare. Purtroppo tu non hai potuto vedere nulla.» Jake si lanciò tra le sue braccia, non c’era bisogno di altre spiegazioni.

«Hmm, Jake, volevo farti presente che sei completamente nudo e mi stai abbracciando… per quanto io abbia un interesse molto vivo per un'altra persona, se continui così…» Jake gli diede un pugno sul braccio.

«Ok, mi vado a vesti-» rumori inequivocabili di lotta interruppero i loro discorsi. Jake prese a vestirsi febbrilmente, mentre Loran si affacciava alla porta. L’agente che aveva lasciato a piantonare, era all’erta in posizione di tiro rivolto alla scala. Gli scagnozzi di Vincent dovevano essere ritornati. All’improvviso ci fu un silenzio irreale. Poi qualcuno irruppe come una furia dalla porta principale e, in un attimo, se lo ritrovarono di fronte con una beretta PMX.

«Jake non uscire dalla stanza!» spararono all’unisono, Loran e l’uomo di Vincent. Il colpo sparato da Loran centrò l’uomo in mezzo agli occhi, ma non prima che una raffica del suo mitra raggiungesse il ragazzo della sua squadra al centro del petto e, il suo ginocchio sinistro.

«LORAN!» Jake era uscito, non aveva capito cosa stesse succedendo, ma la scena che gli si parò di fronte non aveva bisogno di alcuna spiegazione. Il suo collega giaceva esanime a pochi metri da Loran, che si teneva la gamba che sanguinava copiosamente in una posizione impossibile. Jake si mise al suo fianco prendendo dalla sua tasca il telefono per chiamare il 911.



Dall’appartamento avevano seguito l’azione ripresa dalla telecamera di uno degli agenti, avevano tutti e tre il fiato sospeso, perché da quando Loran e l’altro agente erano entrati nella villetta, non potevano vedere come stesse andando. Quando videro gli uomini di Vincent sorprendere i due lasciati a guardia dell’entrata, smisero di respirare. Poi l’uomo che era addetto a riprendere l’azione, cadde a terra e con lui la telecamera. Dopo un attimo di panico, nel quale nessuno mosse un muscolo, Harper prese in mano il telefono e chiamò il numero di emergenza che le aveva lasciato Loran, spiegando l’accaduto. Il numero che le aveva lasciato era quello di Jessica, che le promise che appena avesse saputo qualcosa l’avrebbe ricontattata.



L’ambulanza arrivò in un lampo, gli unici sopravvissuti erano Loran e Jake, che si fece riconoscere per evitare inutili lungaggini e andare assieme a Loran sull’ambulanza. Li portarono al Long Island community Hospital. Non permisero a Jake di entrare nella sala del pronto soccorso, quando erano arrivati Loran aveva perso conoscenza, gli promisero solo che sarebbero venuti a riferirgli delle sue condizioni. Jake finalmente prese in mano il telefono di Loran e chiamò Mark.

«Mark?» Mark aveva guardato il display e il nome che era comparso era quello di Loran, gli tremavano le mani, la paura che Loran gli dicesse che Jake non ce l’aveva fatta, lo stava riportando al giorno in cui aveva ricevuto quella telefonata, che gli aveva strappato dal cuore suo marito.

«Jake?!» non poteva crederci, quella era la voce di Jake, il suo Jake.

«Sono libero, mi trovo al Long Island community Hospital.» era libero, era vivo, era all’ospedale! Il terrore gli attanagliò di nuovo le viscere.

«Sei ferito?» Jake si rese conto di avergli detto di essere all’ospedale, anche lui avrebbe frainteso.

«No, no, io sto bene amore. Ma Loran è stato ferito in modo grave al ginocchio, lo stanno operando.» John lo stava osservando, era in apprensione quanto lui.

«Stiamo arrivando.» Jake non era in grado di guidare, e dopo quello che gli avrebbe detto, dubitava che anche John lo sarebbe stato.

«Era Loran?» John aveva seguito la conversazione, ma sperava di essersi sbagliato.

«No John, mettiti la giacca. Harper, vieni anche tu, dobbiamo andare all’ospedale.» pochi minuti dopo erano in auto, John non aveva il coraggio di chiedere nulla.

«È vivo John, ma è ferito, lo stanno operando.» e fu in quel preciso istante che John si rese conto di essere suo, perché pensare a una vita senza di lui, era una cosa inconcepibile.

Arrivarono nella sala d’attesa della sala operatoria in poco più di mezz’ora. Mark intravide Jake seduto che si teneva la testa con le mani. Jake sollevò lo sguardo, come richiamato da una strana magia, e lo vide. Si alzò in piedi di scatto e lo raggiunse. Per qualche secondo riuscirono solo a guardarsi, ansimando come due adolescenti. Mark fu il primo ad alzare le mani raccogliendo a coppa il suo viso.

«Ho avuto una paura immensa.» Jake spostò il viso sulla sua mano destra, strusciandosi come un gattino, per poi gettarsi sul suo petto. John, incapace di aspettare un secondo di più, tirò la giacca di Mark.

«Scusate, ma io qui sto morendo.» Jake gli sorrise dolcemente.

«È in sala operatoria da poco più di un’ora, mi hanno detto che ci vorrà parecchio. Gli hanno sparato al ginocchio destro. Stanno cercando di salvargli la gamba.» John pensò che se lo sarebbe ripreso anche senza gambe, bastava che tornasse da lui.



Attesero tutti insieme, dopo dieci ore, il chirurgo uscì dalla sala.

«I parenti del capitano O’Reilly?» si fecero avanti tutti.

«Il capitano non ha parenti, io ho la delega.» gli disse Jake mostrandogli un documento.

«Allora posso parlare solo con lei.» John era convinto che sarebbe crollato a terra, non pensava di riuscire ad aspettare ancora.

«Lui è il suo compagno, mi prendo io la responsabilità.» Il chirurgo alzò un sopracciglio, ma acconsentì.

«Allora, il paziente è arrivato con un trauma da arma da fuoco al ginocchio destro. Per fortuna siamo riusciti non solo a salvare la gamba, ma a ricostruire il ginocchio. Le prossime ore saranno decisive per capire se, gli innesti e le protesi che abbiamo messo, verranno accettate dal suo corpo. Non possiamo quindi sciogliere la prognosi. Lo stiamo portando in terapia intensiva. Lo abbiamo svegliato e ha risposto bene alle sollecitazioni, anche la circolazione sanguigna nell’arto è buona. Partiamo da qui. Se volete andare a riposarvi, non lo sveglieremo dinuovo fino a domani mattina.» John iniziò a piangere come un bambino scaricando tutta la tensione.

«Io rimango, io non voglio andare a casa.» Harper li raggiunse e lo obbligò a seguirla.

«Noi andremo a casa e domani mattina presto ritorneremo qui, tutti insieme.» Jake annuì e rincarò la dose.

«Avrà bisogno di te quando sarà sveglio, non vorrai essere uno straccio?» John si fece convincere e seguì Harper e gli altri.



Mark e Jake ritornarono a casa. Si lasciarono giusto il tempo perché John potesse farsi una doccia e cambiarsi, per raggiungere poi Mark nel suo appartamento.

«Hai fame?» Mark stava trafficando in cucina, Jake non si ricordava neppure più da quando non mangiava.

«Mangio volentieri qualcosa.» pochi minuti dopo un mega hamburger con patatine era servito, assieme a una birra gelata.

«Niente cibo sano stasera?» Mark scosse il capo con la bocca piena.

«No, niente cibo sano, solo calorie a non finire, devi riprenderti.» Jake divorò tutto in poco tempo. Si alzò e si mise a cavalcioni su Mark, che s’irrigidì.

«Non sono ferito, sto bene. Qualche livido, nulla che mi possa fermare dal saltarti addosso.» Mark sorrise mentre gli infilava le mani dietro la schiena, provando di nuovo la meravigliosa sensazione del tocco delle sue mani sulla sua pelle setosa.

«Andiamo a letto, voglio godere della vista del tuo corpo.» gli disse Jake, mentre gli riempiva il collo di piccoli baci. Si spogliarono a vicenda lentamente, baciando dolcemente le ferite l’uno dell’altro.

«Jake, mi sei mancato così tanto!» fermo su di lui, emozionato come se fosse la prima volta, lo prese, sentendo quanto i loro corpi si completassero. Jake si perse nei suoi occhi, poi lo strinse a sé, aveva bisogno di sentirlo in ogni modo possibile.

«Ti amo così tanto Mark, così tanto…» Mark non avrebbe resistito a lungo, quelle parole, l’intensità dei loro sguardi, quel bisogno che i loro corpi si stavano trasmettendo erano davvero troppo. Il ritmo divenne pressante, i loro corpi avvinghiati e sudati, volarono in alto come mai prima di allora.

«Mark! Mark!» Mark guardò il suo uomo che raggiungeva l’estasi mentre gridava il suo nome, era la cosa più bella che avesse mai visto. L’orgasmo lo travolse come uno tsunami, togliendogli il respiro. Rimasero così, avvinghiati l’uno all’altro, ad ascoltare i loro respiri e i loro cuori calmarsi.

Jake in realtà si calmò più del previsto, Mark lasciò che si addormentasse, pulendo il disastro che avevano fatto, mentre lui era caduto in un sonno profondo. Puntò la sveglia presto per poter andare all’ospedale insieme a John e Harper.

Si svegliarono stretti l’uno all’altro, e andarono in cucina per preparare la colazione.

«Jake, vorrei che lasciassi la CIA.» Jake, che stava bevendo il caffè, mancò poco che lo sputasse sul tavolo.

«Scusa?» Mark si sedette di fronte a lui.

«Vorrei che lasciassi la CIA.» Jake non poteva credere che gli stesse chiedendo una cosa del genere.

«Sapevi che lavoro facevo quando ci siamo messi insieme. Perché diavolo dovrei lasciare il mio lavoro!» quella risposta era irritante per Mark, non era possibile che non capisse i suoi motivi.

«Questo era prima, prima che mi innamorassi di te, prima che mi rendessi conto di quanto sarebbe facile perderti!» scese un silenzio surreale. Interrotto da Jake.

«Andiamo, si sta facendo tardi.» nel tragitto fino all’ospedale nessuno dei due parlò. Jake era cosciente di quanto Mark si fosse spaventato, ma questo non lo autorizzava a mettere in discussione le sue scelte di vita, perché il suo lavoro, il suo grado, se l’era sudato. Mark non c’era quando lui aveva lottato per emergere, quando si era dovuto difendere dai suoi stessi compagni, come poteva chiedergli una cosa del genere! Mark era tormentato, sapeva di avergli chiesto tanto, ma si conosceva bene, non sarebbe riuscito a reggere quella tensione. Per non parlare poi di lasciarlo andare in missione sotto copertura e non vederlo o sentirlo per settimane, no non era possibile. Arrivarono nel reparto di terapia intensiva senza nemmeno scambiarsi uno sguardo. Harper e John erano già arrivati.

«Hey, ci sono novità?» Chiese Jake andando incontro a John.

«Non è ancora venuto il medico, ma tanto a me non direbbero nulla.» aveva l’aria di uno che non aveva dormito affatto. Si mise a sedere accanto a lui, il più possibile lontano dalla fonte del suo malumore. Un’infermiera uscì dal reparto, Jake la raggiunse nel corridoio. Ritornò poco dopo.

«Sei riuscito a sapere qualcosa?» Jake scosse la testa.

«Ha detto che tra poco il medico sarebbe venuto.» e infatti dopo poco un medico li raggiunse.

«Le condizioni del paziente sono stabili, l’abbiamo svegliato e ha reagito meglio di quello che ci aspettavamo. È estubato, se continua così, già da domani potremmo trasferirlo nel reparto di semintensiva.» John emise un gemito.

«Possiamo vederlo?» il medico sorrise.

«Certamente, ha chiesto di vedere il signor Johnson.» un calore strano prese lo stomaco di John, non aveva chiesto di lui, aveva chiesto di Jake. Si andò a sedere, non sapendo come dovesse sentirsi.

«John, se vuoi andare tu per primo…» John scosse il capo, sorridendo amaramente.

«No, no, ha chiesto di te, è giusto. Io aspetto qui.» Jake entrò nella stanza della preparazione, si disinfettò le mani, indossò il camice, i guanti e la mascherina chirurgica. Loran era nella seconda stanza.

«Hey, ci hai fatto prendere un colpo.» gli disse avvicinandosi. Riconoscendo nel suo sguardo e nella sua espressione la solita ironia.

«Dillo a me! Quando mi hanno svegliato mi sono trovato davanti una faccia sconosciuta, c’è mancato poco che gli rifilassi un colpo alla gola.» Jake trattenne una risata.

«Ti ricordi tutto?» il capitano assentì.

«Ho un ginocchio bionico ora, e non potrò più correre la maratona, ma ho tirato fuori la pellaccia. Gli altri?» Jake gli sorrise sornione.

«O l’altro…» Loran gli mostrò il dito medio.

«John non voleva neppure andare a dormire la notte scorsa e, in verità, guardandolo, non credo che sia riuscito a chiudere occhio. Mark e Harper sono fuori con lui.» Loran chiuse gli occhi e appoggiò la testa sul cuscino.

«Mi domando se non sia meglio che lo allontani da me.» Jake riconobbe i sintomi, li aveva vissuti sulla sua pelle poco tempo prima.

«Meglio per chi? Per te o per lui?» Loran rivolse il suo sguardo verso Jake.

«So che, se gli permetterò di starmi vicino in questo momento, non lo lascerò più andare e questo… questo mi spaventa. Perché mi conosco, non sono uno da fiori, cenette romantiche e tutte quelle altre stronzate da innamorati, cazzo!» Jake si appoggiò sullo schienale della sedia.

«Certo, lo so, tu sei più uno da catene, Plug, fruste eccetera, ma credo che lui questo l’abbia già capito, non credi? Buttati coglione, e magari tra una frustata e l’altra offrigli una cenetta a lume di candela, tanto dopo sai cosa farci, con la candela intendo…» Loran lo guardò intensamente, come se gli stesse scavando dentro.

«È fortunato quel coglione riccioluto, lo sa vero?» Jake sospirò.

«Lo siamo entrambi.» a volte insegnare significa imparare, pensò Jake mentre si spogliava del camice e dei calzari.

«John, è tutto tuo.» John si alzò visibilmente emozionato.

«Harper, mi fai vedere dove sono i distributori del caffè? Ne vuoi uno Mark?» Mark gli disse che era a posto.



John entrò nella camera di Loran timidamente.

«Siediti.» il tono perentorio di Loran lo rassicurò, era lui, in carne e ossa, che gli dava degli ordini, un balsamo per il suo cuore. Pensò di essere completamente fuso, come poteva quell’uomo essere entrato nella sua pelle in quel modo e soprattutto, in così poco tempo?

«Ci vorrà ancora parecchio tempo per riprendere la vita di sempre. Non ti chiedo di aspettarmi.» John strinse gli occhi, lo stava provocando nel peggiore dei modi.

«Senti, grandissimo stronzo. Sono due fottuti giorni che non chiudo occhio per paura che qualcosa andasse storto, mi hanno obbligato ad andare a casa a dormire, ma avrei fatto meglio a restare con il culo su quella sedia, almeno avrei chiuso gli occhi per un po’. E ora tu, mi dici che mi lasci libero? E se io non volessi tornare libero?» Loran trattenne un sorriso, adorava il modo in cui cedeva senza abbassarsi a diventare una mammoletta.

«Mi hai chiamato stronzo, questo ti costerà così tanto…» una frase e uno sguardo pieno di promesse, quello voleva sentire da lui.

«S T R O N Z O.» Loran rise.

«Prepara il culo, vedrò di non metterci troppo a rimettermi. Ti piacerà il sub space seacláid.» “MIO”, mai come in quel momento ne ebbe la certezza, aveva cercato tanto e lui gli era piovuto dal cielo.

«Ora va, vorrei salutare Harper e Mark, e mi sento un po’ stanco.» John si alzò e gli sorrise, uno strano calore si sparse nel torace di Loran.



«Mark, io vado a dormire a casa e…forse è meglio che anche tu lo faccia, sono stanco e ho bisogno di pensare, da solo.» erano tornati a casa, ognuno ancora fermo nella propria posizione.

«Bene, domani vado in ufficio presto, se hai bisogno sai dove trovarmi.» Jake sospirò, ritirandosi nel suo appartamento.



Ma il giorno dopo Jake non si fece vivo, Mark lo sentì rientrare a notte tarda e non si accorse se il mattino dopo, quando lui usciva, fosse o meno ancora in casa. Non un solo fottuto messaggio. Mark stava iniziando a incazzarsi sul serio. Aveva deciso che, se entro le dieci non l’avesse contattato, l’avrebbe fatto lui, e gliene avrebbe dette quattro. Prima di tornare all’appartamento, decise di andare a trovare Loran, che nel frattempo, era stato spostato in semi intensiva. Lo trovò in piedi sul deambulatore, mentre percorreva il corridoio imprecando a denti stretti.

«Hey! Già in piedi! Bello!» Loran si fermò appoggiato sull’attrezzo.

«Ho trovato un fisioterapista che si crede un vero DOM, cazzo! Mi obbliga a camminare per questo cazzo di corridoio almeno tre volte al giorno, oltre a sottopormi alle sue sedute da nazista!» il viso di Loran s’illuminò, e la sua postura cambiò, ora era dritto sulle gambe. Mark si voltò, in fondo al corridoio John avanzava verso di loro.

«Ero passato a vedere se ti serviva qualcosa ma, a quanto pare, c’è già chi si prende cura di te!» Loran sorrise, notando solo in quel momento che lo sguardo di Mark non era lo stesso di sempre.

«A proposito, Mark. Potresti dire a Jake che deve passare dal sergente maggiore Hold, per firmare i documenti per il congedo?» il cuore di Mark gli balzò in gola.

«Quale congedo?!» Loran si morse il labbro stringendo gli occhi, era evidente che Mark non ne sapesse nulla.

«Ha chiesto il congedo ieri mattina e io l’ho firmato.» se prima era arrabbiato, ora era ufficialmente furioso!

«Ok, ti lascio in buone mani. Ciao Loran e ciao anche a te John.» voltò i tacchi, l’avrebbe aspettato davanti alla sua porta, gli doveva un bel po’ di spiegazioni cazzo!



Erano state due giornate infernali per Jake, quando aveva lasciato Mark, aveva compilato il foglio del congedo, le parole che aveva detto a Loran gli avevano aperto gli occhi. Certo, il modo in cui Mark aveva affrontato la cosa era stato a dir poco sbagliato, ma gliela stava già facendo pagare cara. Ma nessun lavoro poteva valere l’amore che provava per lui, perciò appena uscito dalla terapia intensiva aveva parlato con Harper, anche lei doveva reinventarsi e quella ragazza gli piaceva, perciò le aveva proposto la sua idea di creare un’agenzia specializzata in investigazioni private, trovandola, non solo ben disposta, ma più che entusiasta. Così, dopo aver portato il modulo firmato a Loran e avergli spiegato le sue ragioni, lui l’aveva firmato ed era entrato in ferie, tra pochi giorni sarebbe diventato di nuovo un civile. Con Harper avevano girato tutto il giorno successivo, per preparare tutti i documenti necessari da consegnare a Mark, chi meglio di lui poteva organizzare la parte amministrativa! La sua valigetta piena di documenti, gliel’ avrebbe sbattuta sotto il naso, e avrebbe fatto l’offeso ancora per un po’.

«Sai che cazzo di ore sono?» Sobbalzò dallo spavento, appena si accorse che Mark era seduto appoggiato contro la sua porta.

«Sono le 23,28, ti hanno pignorato l’appartamento?» gli stava già passando la voglia di fare pace, quando l’aggrediva in quel modo, gli avrebbe riempito volentieri la faccia di sberle.

«Oggi sono andato a trovare Loran…» gli disse rialzandosi.

«Mi ha chiesto di riferirti che devi chiamare il sergente maggiore Hold, devi firmare dei documenti per il TUO CAZZO DI CONGEDO, quando pensavi di dirmelo?» Jake lo scansò, infilando le chiavi nella toppa.

«Vaffanculo, Mark.» Jake scosse la testa, quella che doveva essere una dolcissima sorpresa, si stava trasformando in un incubo. Mark s’infilò dietro di lui inchiodandolo al muro, un dejà vu inaspettato.

«Mi dispiace.» Jake inchiodato al muro rimase senza parole.

«Mi sono lasciato trasportare dalle mie paure, ti ho chiesto di rinunciare a una parte importante della tua vita per il mio egoismo. Non voglio perderti, ma non voglio neppure che tu possa arrivare ad odiarmi, ho combinato un casino.» Jake faticò a trattenere una risata.

«Vieni in cucina.» glielo disse quanto più seriamente possibile. Mark lo seguì mestamente. Jake appoggiò la valigetta sulla sedia e tolse il plico di documenti appoggiandolo sul tavolo.

«Leggi, intanto io vado a farmi una doccia.» Jake scomparve dietro la porta della camera. Mark prese i documenti e li esaminò. Man mano che proseguiva realizzò cosa stesse succedendo. Lo raggiunse poco dopo, aveva appena chiuso l’acqua della doccia.

«Secondo me non sei pulito abbastanza, posso?» si era spogliato ed era davanti a Jake con una delle più grandi erezioni che avesse mai avuto.

«Sarai il nostro contabile? Gratis per il primo anno?» Mark sghignazzò.

«Ah, Signor Johnson, non posso fare patrocinio gratuito, ma può sempre pagarmi in natura, non crede?» Jake aprì di nuovo l’acqua, dandogli le spalle.

«Proprio non so cosa potrei offrirle signor Cook!» gli rispose, mentre appoggiava le mani contro la parete della doccia, esponendo alla sua vista il suo culo marmoreo. La mano di Mark s’insinuò in mezzo alle sue gambe, massaggiandogli lentamente le palle.

«Ti amo Jake, come non ho amato mai nessuno nella mia vita.» le guance di Jake si colorarono di rosso, si girò per guardarlo negli occhi.

«Dico davvero, sei il mio mondo, non potrei più vivere senza di te.» Lo baciò intensamente con il cuore impazzito, mentre lui intensificava la sua carezza violando la sua fessura per prepararlo.

«Fai presto, ti voglio così tanto!» Mark intensificò il suo lavoro, aiutato dal suo uomo che si spingeva sulle sue dita voglioso.

«Alza la gamba, andrò piano.» l’intrusione fu più dolorosa del solito, ma era così eccitato che passò in secondo piano.

«Così caldo e stretto.» Mark gli morse il trapezio, mentre affondava in lui con movimenti secchi e costanti.

«Ti sento così tanto, è fantastico.» se fosse stato possibile lo stava eccitando ancora di più, avrebbero avuto tempo per il bis. Mark cambiò marcia pompando al massimo dentro di lui, mentre Jake si masturbava allo stesso ritmo.

«Voglio riempirti fino in gola.» Jake buttò la testa indietro travolto dall’orgasmo, e poco dopo Mark lo seguì riversando dentro di lui tutto il suo.



Seguirono mesi febbrili per tutti loro, Mark e Jake cercarono una sede adatta per far partire l’agenzia, Harper nel frattempo aveva trovato un nome: “Akashi Detective agency”, non poteva essere diverso.

Loran era stato dimesso, con la raccomandazione di farsi ricoverare in una clinica specializzata per la riabilitazione, cosa che lui ignorò bellamente, preferendo assumere un fisioterapista che veniva due volte al giorno a casa sua per la terapia riabilitativa. John si faceva in quattro dividendosi tra l’organizzazione della parte legale dell’agenzia e il servire e riverire Loran, che sembrava divertirsi molto, mentre lo comandava a bacchetta.

Poi finalmente arrivò il giorno dell’inaugurazione dell’agenzia e, per la prima volta, Loran avrebbe affrontato la serata con il solo ausilio di un elegante bastone.

«John, non rimarrò molto all’inaugurazione. Ma tu se vuoi puoi restare.» John gli stava sistemando la cravatta, che sperava finisse sui suoi polsi a fine serata, erano mesi che non lo toccava. Sperava che, visti i miglioramenti degli ultimi tempi, finalmente avrebbero potuto ricominciare, almeno con del buon sesso vaniglia.

«No, non c’è problema, torno a casa con te.» gli rispose porgendogli il bastone.

«Non ho detto che torno a casa. Ho un impegno.» John trasalì, non aveva la minima idea di dove dovesse andare, lo guardò rabbuiandosi.

«Vanessa mi ha chiesto di assistere al palco del suo Dungeon.» John lo guardò ancora più perplesso.

«Già, non lo sai. Vanessa è la proprietaria di un club, il “Le fetish ruge”. Ogni settimana alcuni dei suoi clienti amano esibirsi sul palcoscenico. Durante queste esibizioni, a volte, alcuni Dom, tendono ad esagerare. Per questo chiama alcuni Dom esperti, di cui si fida, a fare una sorta di arbitraggio e ad intervenire, nel caso che le cose si mettano male. Non devo fare un gran che, devo solo assistere, se tutto va bene mi godrò pure lo spettacolo.» John indispettito, si sistemò i capelli, facendo sorridere Loran per quell’atteggiamento.

«Non penso che ti interesserebbe assistere…o sì?» John si voltò verso di lui, ancora più indispettito.

«Tu vuoi che venga?» si morse il labbro, sentendo quanto la sua voce fosse uscita dalla sua bocca, con almeno due toni più alti di quanto avrebbe voluto.

«Non mi dispiacerebbe.» John lo guardò con aria di sfida, alzando il mento.

«Allora ti accompagnerò!» gli disse avvicinandosi alla porta per aprirla. Loran si abbassò su di lui appoggiando la sua mano sulla gola, stringendola fino a togliergli quasi il fiato.

«Ascoltami con attenzione, non osare venire mentre guardi lo spettacolo o ti farò assaggiare la mia frusta.» il membro di John scattò sull’attenti.

«Non lo farò Master.» Loran allentò la presa sul suo collo e gli leccò l’orecchio.

«Che peccato, ho così tanta voglia di punirti seacláid. Ha, dimenticavo, devo comunque punirti per le due volte che mi hai chiamato Stronzo. Vedrò cosa fare.» aprì la porta.

«Dopo di te.» gli disse premendo dolcemente sulla sua schiena per farlo uscire. John tremava, l’attesa lo stava già uccidendo e la serata era appena iniziata.



Copyright © 2020 Veronica Reburn

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Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

 

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