Cerca nel blog

domenica 15 novembre 2020

 





LA DIMORA DEL NULLA
Hinata – Vol.1
DI
VERONICA REBURN
 
 
Copyright © 2017 Veronica Reburn (prima edizione)
Copyright © 2022 Veronica Reburn (seconda edizione)

Tutti i diritti riservati.
È proibita la riproduzione, anche parziale, in ogni forma o mezzo, senza espresso permesso scritto dell’autrice.


Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
 
Pagina Facebook https://www.facebook.com/estasiyaoi
Instagram: veronica.rebu
TikTok: @veronicareburn
Cover a cura di Veronica Reburn
Immagini originali: 
iStock numero 2084819692 da pixabay.com
Foto di Evgeny Tchebotarev da pexels.com
Separatori grafici:
artRose da pixabay.com
  
Dediche

A papà,
spero che tu possa avere trovato pace.

 

Questo libro è per te Maria Scarantino, 
perché l’hai amato prima di tutti, perché continui ad amarlo.
 
 
 
Sommario

CAPITOLO I                     TOKIO 2034
CAPITOLO II TOKYO 1984
CAPITOLO III TOKYO PRIMA DELL’ESAME
CAPITOLO IV L’ESAME
CAPITOLO V MOTOKI E NATSUME
CAPITOLO VI IL VILLAGGIO DEL TÈ
CAPITOLO VII KENATKU-KAI, OYABUN NATSUME
CAPITOLO VIII CHA NO YU PER KEN
CAPITOLO IX RITORNO A CASA
CAPITOLO X LA SCELTA DI CHIYO
  
 
Glossario
TITOLI ONORIFICI:
San (さん [san]): è derivato dal ''sama'' è il titolo onorifico più comune, usato praticamente fra persone di tutte le età. può essere utilizzato sia in contesti formali che informali e per qualsiasi genere.
Sama (様 [sama]): è una versione decisamente più rispettosa di San e può essere utilizzato per qualsiasi genere. Viene utilizzato principalmente per riferirsi a persone di grado più elevato rispetto a sé stessi.
Chan (ちゃん [Chan]): utilizzato come vezzeggiativo, usato da un ragazzo per rivolgersi a una ragazza non parente è più probabile che indichi che vi sia un rapporto particolare fra i due (es. fidanzati o amici d'infanzia).
Sensei (先生 [Sensei]): significa "professore", "maestro" (in ogni senso) o "dottore".
Oniisan e Oneesan: fratellone o fratello maggiore e sorellona o sorella maggiore.
Otouto e Imouto: fratello minore e sorella minore.
Ojisan e Obasan: zio e zia.
Ojiisan e Obaasan: nonno e nonna.
Otōsan e Okaasan: papà e mamma.
Haha:"mia madre"
  

ARTI MARZIALI:
Lo Iaidō (居合道): è un'arte marziale giapponese, influenzata dalla dottrina zen, che trae le sue radici dalle antiche scuole di kenjutsu e iaijutsu frequentate dai buke in genere (ma specialmente dai samurai) e che hanno avuto il loro massimo splendore intorno al XVI secolo.
Il Kendō (剣道): è un'arte marziale giapponese, evolutasi dalle tecniche di combattimento con la katana anticamente utilizzate dai samurai nel kenjutsu.
Il Tessenjutsu (鉄扇術): è l'arte marziale del ventaglio giapponese da combattimento, il tessen.
 
YACUZA:
La Yakuza (hiragana: やくざ, katakana: ヤクザ), chiamata anche gokudō (極道): è una tradizionale organizzazione criminale giapponese suddivisa in numerose bande dette kumi o – nella terminologia legale – bōryokudan (暴力団 letteralmente "gruppo violento").
Yubitsume (指詰め Yubitsume, giapponese per "accorciamento di dita"): è un rituale giapponese per espiare la colpa di gravi scorrettezze compiute verso qualcuno, un modo per essere puniti o per mostrare scuse sincere o fedeltà incondizionata; consiste nell'amputazione delle falangi del proprio mignolo; questa pratica è retaggio quasi esclusivo della yakuza, la principale organizzazione criminale giapponese. 
Oyabun: capo supremo di un gruppo yakuza
Saiki-komon: amministrativi rispondono direttamente al Oyabun, al Saiki-komon rispondono Shingiin, ramo giuridico e Kaikei ramo contabile
Wakagashira: vice dell’Oyabun
Shateigashira: Secondo vice dell’Oyabun
Kyodai: fratelli maggiori, rispondono ai vice
Shatei: fratelli minori rispondono ai Kyodai
 
VARIE:
Love Hotel (ラブホテル Rabu hoteru): sono alberghi che consentono di restare in stanza sia per qualche ora (opzione denominata "rest"), sia per una notte intera (opzione denominata "stay"). All'entrata dei Love Hotel ci si trova davanti a un pannello luminoso in cui si vedono le fotografie delle camere e il relativo prezzo per le due opzioni "rest" e "stay". È sufficiente premere il tasto corrispondente alla camera che si desidera, ritirare la chiave o un biglietto e salire in stanza.
Geisha (pron. [ˈɡɛiʃʃa], plurale geishe; in giapponese 芸者): o gheiscia, raramente gheisa, è una tradizionale artista e intrattenitrice giapponese, le cui abilità includono varie arti, quali la musica, il canto e la danza.
danna o patrono: Era uso nel passato che una Geisha, per stabilirsi, prendesse un danna o patrono. Tradizionalmente il danna era un uomo ricco, talvolta sposato, che aveva i mezzi per accollarsi le enormi spese di cui il lavoro di Geisha abbisognava; la tradizione del danna è viva in Giappone, ma solo qualche Geisha ne sceglie uno.
 
ABITAZIONI:
Nōka: casa di campagna.
Genkan: è l’ingresso dell’abitazione giapponese, solitamente il pavimento è in pietra, ed è più basso di un gradino rispetto al resto della casa. Nel Genkan bisogna togliersi le scarpe.
Tatami: le classiche stuoie di paglia intrecciata e pressata con i bordi orlati con un cordoncino di cotone o di lino.
Shoji: sono delle porte scorrevoli fatte di carta di riso e da un’intelaiatura in legno, che diffondono una luce morbida e naturale.
Engawa: una sorta di veranda, che può servire come corridoio esterno o come comunicazione fra gli spazi interni ed esterni.
Futon: ovvero il letto, costituito da un materassino e da una trapunta.
Chadansu: credenza
Kotatsu: tavolo riscaldato a cui viene applicata una coperta sui lati con cui riscaldare le gambe durante i pasti.
Irori: il focolare della casa, ricavato da una cavità nel pavimento, che ospita il fuoco per il bollitore e che serve a riscaldare l’ambiente. 
 
CERIMONIA DEL TÈ
Cha no yu (茶の湯, "acqua calda per il tè"): conosciuto in Occidente 
anche come Cerimonia del tè.
Furo (furo, 風爐): il bollitore che in primavera ed estate è in un braciere.
Usucha (薄茶, usucha): miscela di tè leggero.
Chasen (茶筅, chasen): frullino di bambù.
Shōmen (正面): la parte di finitura della tazza.
Teishu: colui che esegue la cerimonia
 

CAPITOLO I
TOKYO 2034
 

hiyo sentiva provenire in lontananza un suono conosciuto. Nel dormiveglia la sua coscienza le stava dicendo che avrebbe dovuto ascoltarlo, ma il suo piumone era un richiamo irresistibile. Però il suono continuava imperterrito, anzi, era sempre più forte e fastidioso. Aprì un occhio ed estrasse un braccio da quel calore confortante. Rabbrividendo per la differenza di temperatura che percepì, prese in mano il suo smartphone e spense la sveglia. Era perfettamente conscia che di lì a poco sua madre si sarebbe affacciata alla porta, e trovandola ancora a letto, avrebbe rotto quell’incantevole sensazione. Per questo motivo lo fece lei stessa, uscendo all’istante da sotto le coperte. Si mise seduta sfregandosi vigorosamente gli occhi assonnati.
Era il ventisette di dicembre, le vacanze invernali erano appena iniziate. Malgrado questo non era affatto contenta. Sua madre aveva deciso che le sue preziose vacanze le avrebbero passate insieme alla nonna, e questo aveva scombinato i suoi piani. Avevano discusso fino allo sfinimento. Non ne voleva sapere nulla, era una delle poche occasioni che aveva per passare del tempo con il suo fidanzato, Azumamaro. Sua madre invece voleva portarla alle pendici del monte Fuji, vicino a Shizuoka, in mezzo ai contadini per passare lì quel poco tempo libero che lo studio le concedeva. Dopo una lunga e sanguinosa trattativa erano arrivate a un compromesso; sarebbero andate dalla nonna e Azumamaro le avrebbe raggiunte in seguito, per passare gli ultimi giorni dell’anno insieme a loro.
Come si era immaginata, mentre ripensava agli ultimi eventi, sua madre Aiko spalancò la porta, come sempre senza bussare e pronta a urlarle contro. Notò il suo stupore quando la vide già sveglia, quello fu probabilmente il motivo per cui, almeno per quella mattina, non le urlò contro.
«Ah! Sei sveglia.»
Un sorriso beffardo si disegnò sulle sue labbra, la soddisfazione di averla presa in contropiede le si leggeva in faccia.
«A quanto pare,» le rispose sbadigliando.
In quel momento della sua vita, le regole di casa le stavano strette. Frequentava l’ultimo anno di liceo, aveva un ragazzo, Azumamaro e sentiva la mancanza della sua libertà.
Lei e Azumamaro si erano conosciuti all’Harumi Comprehensive High School, il liceo che entrambi frequentavano. Lui aveva terminato gli studi l’anno precedente e ora stava frequentando l’università, l’Istituto di tecnologia Nagoya. Voleva andare a vivere con lui, visto che l’anno successivo avrebbe frequentato la stessa università. Lui invece non ne voleva sapere, sostenendo che andare a vivere insieme prima di avere finito gli studi, non fosse una buona idea. Gli scontri tra di loro, per questo motivo, erano ormai all’ordine del giorno.
Sua madre dava ragione ad Azumamaro voleva che vivesse la sua giovinezza senza legarsi in questo modo a un uomo.
«Vedi di non metterci troppo a prepararti, Obaasan-Hinata ci aspetta per pranzo.»
La vide raccogliere le sue valige e appoggiarle fuori dalla porta, dove il facchino le avrebbe recuperate.
Scattò, rifugiandosi in bagno per poi infilarsi sotto la doccia. Ma riuscì ugualmente a sentire sua madre sospirare prima di udire la porta chiudersi.
 
Aiko non voleva cedere alle sue provocazioni. Ormai si era abituata a questi atteggiamenti, sperava che la vacanza dalla nonna sarebbe servita in qualche modo a riavvicinarle o, per lo meno, a trovare un nuovo modo di comunicare. Continuava ad avere, ostinatamente, voglia di riavere quella che era stata la sua bambina e che da troppo tempo era sparita, lasciando il posto a questo essere che parlava una lingua a lei sconosciuta.
Ritornata nella sua stanza non ebbe bisogno di molto tempo per prepararsi, era abituata a vestirsi in modo molto formale perciò, potersi infilare dei vestiti sportivi era un diversivo molto gradito. Anche le sue valigie erano pronte fuori dalla porta e uno dei facchini le stava portando nella Hall. Suo marito Eichi entrò nella stanza.
«Sei pronta?»
Ricambiò l’abbraccio che le diede, sforzandosi di sorridere; non amava esternare i suoi sentimenti. Era fatta così, uguale a suo padre, dal quale aveva preso anche il carattere ostinato e l’immenso cuore.
«Vi riavvicinerete, devi credermi,» le disse Eichi baciandola sulla fronte.
Lei lo guardò stringendo gli occhi. «Disse colui che ancora è nelle sue grazie…,» invidiava il loro rapporto.
La risata cristallina di suo marito riempì la stanza ma lei lo scacciò con un gesto della mano, come se dovesse spostare un insetto fastidioso, anche se non riuscì a rimanere seria.
«Vado a controllare quante ore ci vorranno ancora alla nostra principessa per decidere di essere presentabile,» prese la sua borsa e uscì dalla stanza seguita dal marito.
«Vi aspetto nella Hall, c’è ancora tempo per il treno. Dalle un po’ di tregua,» le disse Eichi mentre prendevano direzioni opposte.
Mentre percorreva il corridoio che l’avrebbe portata alla stanza di sua figlia, pensò a quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva visto sua madre, erano trascorsi già sei mesi. Non erano mai state lontane per così tanto tempo. Le mancava. Le mancavano il suono confortante della sua voce, i suoi occhi profondi e la sua calma, la calma che aveva portato via con sé.
Ripensò a quando suo padre era ancora vivo, la loro era una grande famiglia, oltre a loro tre, c’erano suo padre e sua madre e cinque anni prima, anche la tata di sua madre, Kiki Matsuda, che viveva con loro. Ora la famiglia Harada si era ridotta a tre soli membri e in realtà di Harada era rimasta solo lei, giacché la figlia aveva scelto di portare solo il cognome di Eichi, Aoki.
Fatto sta che, a pochi mesi dalla morte di suo padre, sua madre aveva deciso di andare a vivere nella tenuta del maestro Hitomaro Itō, in mezzo alle piantagioni sterminate di tè verde. Probabilmente per coltivare nel suo cuore il ricordo del marito, poiché proprio in quel villaggio era nato il loro amore.
Spalancò la porta della camera di sua figlia, trovandola vestita di tutto punto e come sempre attaccata al suo smartphone. Stava chattando con qualcuno, sicuramente con Azumamaro pensò. Appena la vide prese la borsa e uscì dalla stanza, e lei la seguì scuotendo il capo.
«Otōsan ci aspetta nella Hall per accompagnarci in stazione,» le disse mentre camminavano spedite verso l’ascensore privato.
Sua figlia annuì, senza distogliere neppure un istante gli occhi dal suo prezioso smartphone. Questo la irritò a tal punto che stava per esplodere, ma proprio nel momento in cui le parole di rimprovero stavano per uscire dalla sua bocca, Chiyo alzò gli occhi, le sorrise e infilò l’apparecchio dentro la borsa.
Scongiurata l’ennesima lite, arrivate nella Hall si separarono, Chiyo raggiunse il padre che stava caricando i bagagli nell’auto davanti all’entrata dell’Hirohito Grand Hotel, e lei ne approfittò per impartire gli ultimi ordini al concierge.
L’auto in pochi minuti le portò a destinazione, la stazione di Tokio non era molto distante.
«Signore devo lasciarvi, tra poco arrivano degli ospiti dall’Irlanda e non posso mancare, ci vediamo tra qualche giorno, devo portare qualcosa quando vengo?» lo sguardo che le lanciò non passò inosservato a Chiyo.
«Sì, devi portare Azumamaro cerca di non dimenticarlo,» l’intervento di Chiyo provocò l’ilarità del padre e lei non poté fare a meno di sospirare, domandandosi di nuovo se quella fosse stata la scelta giusta.
Rimasero sole ad attendere il treno che arrivò come sempre puntualissimo, alle nove e un quarto erano già in viaggio. Avevano biglietti di prima classe, non viaggiavano spesso e quando lo facevano preferivano farlo comodamente.
Erano in viaggio da dieci minuti e Chiyo già dormiva, così lei ne approfittò per continuare a leggere il libro che aveva portato con sé, che stava tentando di finire da mesi.
Poco dopo le undici giunsero alla stazione di Shinjuku, da li avrebbero proseguito noleggiando un’auto per arrivare nei pressi della città di Fuji. Per fortuna il tempo era stato clemente, non avrebbero avuto difficoltà ad arrivarci. Per tutto il viaggio sua figlia ascoltò la radio saltando da un canale all’altro, nessuna delle due aveva intenzione di rompere quel silenzio confortevole. Era di certo meglio delle urla che erano volate tra loro nelle settimane precedenti.
Il viaggio durò poco più di quaranta minuti. Entrarono nella tenuta verso le tredici. Hinata le stava aspettando seduta su un gradino dell’entrata della sua casa. Nonostante i suoi sessantotto anni era ancora una donna bellissima. Le si strinse lo stomaco pensando a quante volte si era rammaricata di non avere ereditato la sua bellezza. Non che lei fosse una brutta donna, anzi, era carina, nel suo metro e cinquanta di altezza. I suoi capelli, neri come i suoi occhi, erano tutto sommato piacevoli, e le sue labbra carnose facevano sì che il suo viso risultasse molto gradevole. Anche ora, che aveva quarantun anni, il suo fisico minuto la faceva sembrare molto più giovane. Si voltò verso Chiyo, mentre scendevano dall’auto. Anche sua figlia era molto carina, era un po’ più alta di lei, un metro e sessantacinque, e come lei aveva i capelli e gli occhi neri, purtroppo non aveva ereditato le sue labbra carnose, né il suo seno prosperoso e di questo, lei ne era conscia, Chiyo si rammaricava molto. Aveva però, diversamente da lei e Hinata, una voce così calda e sensuale da far perdere la testa, oltre a una così pronta intelligenza che chiunque avesse avuto modo di conoscerla, avrebbe ricercato ancora la sua compagnia. Peccato che lei non riuscisse a rendersene conto, la stima e la sicurezza nelle proprie capacità non le appartenevano.
«Chiyo dammi una mano con i bagagli, per favore, e si gentile con Obaasan, almeno con lei,» abbasso il tono della voce su quell’ultima frase.
Chiyo si sistemò i capelli, stringendo l’elastico che li teneva legati in una coda alta. Ad Aiko non sfuggì questo gesto, che Chiyo faceva quando era molto nervosa. Temette, per un attimo, che stesse per esplodere ancora quella rabbia che troppo spesso le faceva scontrare. Chiyo invece non disse nulla, si avvicinò, prese quanti bagagli riuscì e s’incamminò sul vialetto che portava alla casa. Questo la tranquillizzò, così prese il resto dei bagagli, chiuse il portellone e la seguì.
Hinata nel frattempo si era alzata per raggiungerle. A gran voce stava chiamando qualcuno per dar loro una mano e, come per magia, si materializzarono alcuni lavoratori della tenuta, che si presero cura dei loro bagagli portandoli all’interno della casa. Superò sua figlia, e tendendo le braccia, andò verso sua madre.
«Okaasan!» Si abbracciarono, il viso stretto tra le mani per specchiarsi l’una nello sguardo dell’altra.
Appena si staccarono Hinata spalancò di nuovo le braccia rivolgendosi a sua nipote.
«Chiyo! Fammi sentire la tua voce!» e Chiyo le volò tra le braccia.
«Ciao Obaasan, ti trovo in forma smagliante!»
«Noi vecchiette ci difendiamo ancora bene. Ma dove avete messo gli uomini?» i suoi occhi saettarono alla ricerca di altre presenze.
«Eichi e Azumamaro ci raggiungeranno prima di capodanno,» le rispose Aiko.
«Meglio così, avremo tempo per stare tra di noi, gli uomini complicano sempre tutto, anche le semplici conversazioni,» affermò risoluta facendo ridere Chiyo.
«Adesso entriamo che fa un po’ freddino per me,» si voltò, prendendo la mano a entrambe, che la seguirono attraverso il giardino.
 
Hinata, da quando si era trasferita, aveva apportato importanti cambiamenti in quella che prima era una semplice casa di campagna. Aveva fatto arrivare l’acqua corrente, comprato e fatto installare una stufa a pellets, aveva persino voluto il Wi-Fi. Per il resto tutto era come le era sempre piaciuto, sobrio ed essenziale, come si conviene alle case Nōka.
Si tolsero le scarpe, lasciandole sotto il gradino del Genkan, infilandosi le pantofole prima di entrare. Il pavimento di legno era stato cambiato, così come i Tatami che lo ricoprivano. Aveva anche fatto aggiungere una stanza da bagno molto grande, con doccia e vasca idromassaggio. Anche la carta di riso delle Shoji, che era ingiallita, era solo un lontano ricordo.
Le accompagnò nelle loro stanze, notando che Chiyo emise un grande sospiro di sollievo quando scoprì che ognuna di loro ne aveva una. Le lasciò sole, per permettere loro di sistemarsi, tornando nel soggiorno per preparare il tavolo per il pranzo. Pochi minuti dopo erano sedute davanti a una grande ciotola di Ramen. Mangiarono con appetito, le coperte collegate al kotatsu emettevano un piacevole calore, che riscaldava le loro gambe. L’atmosfera che si respirava era di pace assoluta, pochi erano i rumori che si udivano provenire dall’esterno.
«Ho visto che hai sistemato il giardino fuori dall’Engawa, in primavera sarà meraviglioso, Okaasan.» Sua figlia non aveva perso lo spirito di osservazione, pensò Hinata prima di annuire sorridendo.
«Hai notato il disegno al centro dell’aiuola centrale?» Aiko annuì e i suoi occhi s’illuminarono.
«Pensi che sarebbe potuto sfuggire alla mia vista?».
«Siete spie russe?» Chiyo, pur seguendo i loro discorsi, non era riuscita a capire di che diamine stessero parlando. A Hinata però non piacque la sua battuta.
«Ci sono parecchie cose che non sai, Chiyo-Chan,» le rispose piccata.
«Obaasan vuole solo dirti, che non conosci tutti i trascorsi della nostra famiglia,» intervenne Aiko temendo la sua reazione.
Hinata si girò fulminando sua figlia.
«Non ho ancora bisogno del tuo aiuto, per spiegare cosa voglio dire. Aggiungo, mia cara Chiyo, che hai sentito bene, tu devi ancora conoscere molte cose.»
Aiko si era zittita, aveva abbassato lo sguardo e Chiyo era rimasta a bocca aperta. Lei invece sorrideva, attendeva questo momento da tanto tempo.
Chiyo non poteva sapere che lei non era soltanto la nonna amorevole che le aveva raccontato tante storie quando era piccola. 
«Obaasan, abbiamo qualche giorno di tempo, se tu vorrai, io sono qui per ascoltare, le mie orecchie sono aperte,» il suo cambio di atteggiamento riuscì a sorprenderla, sperò che sua nipote fosse davvero pronta ad ascoltare.
 
Aiko tratteneva il respiro, assistendo a quella che le sembrava una partita di tennis. Ma lei sapeva che quella partita non l’avrebbe vinta la giovane e furba ragazza che le sedeva a fianco, ma l’anziana signora che le sedeva di fronte. Anche se erano passati anni, la forza manipolatrice di Hinata faceva sì che le persone cadessero nella sua rete senza rendersene minimamente conto.
Finirono di mangiare senza dirsi quasi più nulla, a fine pranzo, misero in ordine e andarono nelle rispettive stanze a riposare.
 
Chiyo appena si sistemò nella sua stanza, ne approfittò per collegarsi via Skype con Azumamaro.
«Ciao, ci hai messo una vita a rispondere Azu,» il tono di rimprovero che usò era poco convinto, e quando lui le sorrise i battiti del suo cuore accelerarono. Continuava a domandarsi come fosse possibile che quel bellissimo ventenne, che era apparso sullo schermo, fosse il suo fidanzato, una domanda che la tormentava fin dal loro primo appuntamento.
Era sempre stato il ragazzo più desiderato della sua scuola, aveva una schiera di ammiratrici che pendevano dalle sue labbra. Quando le chiese di uscire la prima volta, gli rispose un secco no, era convinta che volesse burlarsi di lei, eppure lui insistette, continuando a corteggiarla fino a quando lei capitolò.
Non era nato in Giappone, ma a Glasgow, in Scozia, da padre giapponese e madre scozzese. Si erano trasferiti in Giappone quando lui aveva undici anni. Si era trovato subito a suo agio, parlava perfettamente entrambe le lingue, anzi, era solito dire che pensava in inglese e parlava in giapponese. Era alto un metro e ottantacinque, biondo, con gli occhi blu ma i suoi tratti erano giapponesi, anche se ne avevano perso parte della delicatezza.
«Chiyo, lo sai che sto studiando come un pazzo! Ero nell’altra stanza. Avete fatto un buon viaggio?» 
«Silenzioso, direi.»
«Devi smettere di essere così prevenuta, goditi la vacanza, ci vedremo tra pochissimi giorni, nel frattempo, potresti approfittarne per studiare un po’.»
Annuì, anche se sapeva che non l’avrebbe fatto, non aveva nemmeno preso i libri e non aveva nessuna intenzione di studiare.
«Ok, ti lascio ai tuoi studi Azu,» si passò la punta della lingua sul labbro, certa che la sua provocazione non sarebbe passata inosservata.
«Ti odio Chiyo,» Azumamaro rise e chiuse il collegamento mentre scuoteva la testa.
Si lasciò cadere sul letto e chiuse gli occhi. Si sentiva inquieta come sempre. Incompresa, soprattutto da chi sosteneva di amarla; sua madre, suo padre, persino Azu. Tutti consideravano la sua inquietudine immaturità, e forse in parte avevano ragione, eppure, sapeva che c’era qualcosa che le sfuggiva, qualcosa di sé stessa che non riusciva a inquadrare.
Il sole stava tramontando ma decise ugualmente di uscire a fare una passeggiata nei dintorni. Si mise una giacca pesante perché fuori faceva piuttosto freddo e bussò alla porta della camera di sua madre per comunicarle le sue intenzioni.
«Okaasan, esco a fare una passeggiata,» le disse senza aprire la porta.
«Torna per ora di cena,» le gridò di rimando, felice che non le avesse chiesto di accompagnarla.
S’incamminò sul vialetto di casa, prendendo poi il sentiero che portava alla piantagione. Adorava la simmetria dei disegni delle piantagioni del tè e l’odore che si sprigionava quando una foglia veniva spezzata tra le mani. La tranquillità che si respirava dava un po’ di sollievo alla sua anima.
Mentre camminava, in lontananza, scorse una figura che si stagliava all’orizzonte, verso il sole che tramontava. Quella persona si stava esercitando nel Taijiquan, ed era uno spettacolo unico, la perfezione e l’armonia dei movimenti erano simili a una danza. Si avvicinò quanto più silenziosamente le riuscì. Trattenne un’esclamazione, quando si accorse che, chi stava praticando quell’arte, era vecchio, anzi, molto vecchio, tanto che non sarebbe riuscita a indovinarne l’età, se qualcuno gliel’avesse chiesta. Si sedette su un masso poco distante, continuando a osservarlo rapita, fino a che terminò il suo esercizio. Il vecchio scese dalla roccia sulla quale aveva eseguito la sua danza e si rimise i geta ai piedi. Si accorse della sua presenza e la fissò rimanendo fermo a qualche metro di distanza. Improvvisamente si mosse e lei se lo trovò di fronte. Si alzò quasi inciampando nei suoi stessi piedi, maledicendosi per la sua goffaggine.
«Non hai lo sguardo di Ojiisan-Ken. Piuttosto quello di Ojisan-Natsume, peccato.» Dopo aver espresso quel pensiero si voltò allontanandosi. Rimase pietrificata. Mentre lo guardava allontanarsi notò, nel retro del suo kimono, la stessa iscrizione che la nonna aveva inserito all’interno dell’aiuola del suo giardino. Si riscosse e decise di seguirlo, voleva capire chi fosse quel vecchio, e soprattutto, come conoscesse suo nonno e suo zio. Nonostante la veneranda età, dovette correre per arrivargli alle spalle.
«Sensei, scusate, fermatevi, concedetemi un momento di attenzione,» malgrado ansimasse pesantemente il vecchio non ne voleva sapere di fermarsi, così continuò a seguirlo per il sentiero che saliva, allontanandosi dalla piantagione.
«Ditemi almeno chi siete, vi prego Sensei!» urlò affannata. Finalmente, il vecchio si fermò. Quando riuscì a raggiungerlo lui fece un inchino elegante.
«Il mio nome è Hitomaro Itō, sono il Sensei del Burūdoragon Kendō Dojo. Maestro di Ken, di Natsume, di Hinata e di Aiko, Chiyo-Chan.»
Non sapeva più cosa pensare, tutta la sua famiglia faceva parte di un Dojo e lei non ne aveva mai saputo nulla. Quali arti marziali avevano imparato? Perché tenerle nascosta quella parte della loro vita? Sbuffò ricordando che proprio i suoi genitori, quando aveva chiesto di poter imparare un’arte marziale, le avevano negato il consenso.
«Io, non lo sapevo…». Fu l’unica cosa che le uscì dalla bocca.
«Ora lo sai,» e s’inchinò per congedarsi.
«Sì, Sensei,» s’inchinò a sua volta e lui si girò riprendendo il cammino. Lo seguì con lo sguardo fino a che lo vide sparire dopo una curva. Restò li, immobile, senza pensare a nulla, piena di quello strano incontro, poi si girò, ritornando sui suoi passi. Entrò in casa infreddolita e si precipitò sull’Irori, aveva bisogno di riscaldarsi. La voce di sua madre, alle sue spalle, la fece trasalire.
«Dove diavolo sei stata! Stavo per venire a cercarti. È quasi ora di cena.»
Stava cercando, dentro di sé, il modo migliore di non assalire sua madre con le mille domande che le venivano in mente e soprattutto, non voleva arrabbiarsi con lei. Almeno non fino a che avesse scoperto il motivo per il quale nessuno le aveva detto nulla.
«Ho incontrato qualcuno molto affascinante, mi sono lasciata andare a una lunga conversazione, non mi sono resa conto del tempo che passava,» il sorriso ironico che seguì la sua risposta sapeva che l’avrebbe irritata.
Infatti, vide sua madre corrugare la fronte, stava di certo cercando di capire chi avesse potuto incontrare di tanto affascinante nella piantagione.
«In effetti, Sensei-Hitomaro Itō è sempre risultato affascinante anche a me,» un sorriso furbetto che conosceva bene spuntò sulle labbra di sua madre.
Le lanciò uno sguardo fiammeggiante. Ma decise di non raccogliere la sua sfida tornando a fissare l’Irori.
«Avanti, su, dimmi quello che hai da dire e facciamola finita, Chiyo.»
«Mi devi delle spiegazioni, anzi, tutti voi mi dovete delle spiegazioni,» non la guardò nemmeno, la rabbia stava prendendo il sopravvento.
In quel momento Hinata le chiamò per la cena e Aiko la raggiunse e si sedette. Fece cenno a Chiyo, che nel frattempo l’aveva seguita, di sedersi a sua volta.
«Hinata, Chiyo ha incontrato Sensei-Hitomaro Itō. Mia figlia pensa che le dobbiamo delle spiegazioni,» disse rivolgendosi a sua madre.
Hinata appoggio la sua ciotola con il riso e la guardò.
«Non credi di essere venuta qua per questo?» le chiese sua nonna.
A quel punto Chiyo rinunciò a capire le due donne che, a un tratto, non riconosceva più.
«Sensei-Hitomaro Itō, ha detto che somiglio a Natsume,» era la prima cosa che le venne in mente di quella conversazione e la disse senza pensarci più di tanto.
Ma nessuna delle due donne la commentò, continuarono a mangiare come se non l’avessero sentita.
«Lo andrò a trovare domani, Hitomaro, tornerò verso sera, partirò prima dell’alba,» le informò Aiko.
Terminarono il pasto immerse nei loro pensieri, e sempre in silenzio rimisero in ordine.
Quando si ritirò nella sua stanza, fece appena in tempo ad appoggiarsi sul letto che venne colta da un sonno profondissimo.
 
Aiko, invece, ci mise un po’ più del solito ad addormentarsi, era eccitata al pensiero della giornata che la stava aspettando. Avrebbe parlato di nuovo con il suo maestro, dopo tanto tempo che non lo vedeva. Ricordava ogni momento trascorso con lui, mentre imparava l’arte che aveva scelto, o com’era solito dire lui, l’arte che l’aveva scelta. Era diventata maestro del Tessenjutsu, l’arte del combattimento con il ventaglio, la stessa che aveva scelto sua madre, elegante, letale. Con un colpo ben assestato, anche se ora non era allenata, sarebbe ancora stata in grado di uccidere un uomo adulto prima che riuscisse a pronunciare il suo nome. Sorrise, al pensiero della potenza di quell’arma così femminile, e lentamente scivolò nel sonno.
 
Hinata invece, non andò subito a dormire. Estrasse, da uno dei suoi cassetti, un grosso album di fotografie, e si mise a sfogliarlo. La memoria non era più quella di una volta, si accingeva a raccontare una storia che aveva più di una sfaccettatura, non voleva dimenticare nulla d’importante. Solo in questo modo, ne era convinta, Chiyo sarebbe riuscita a capire meglio sé stessa e a sconfiggere i demoni che la tormentavano.
 
Il mattino successivo, quando Chiyo si svegliò, era sola in casa. Il tè fumante era a fianco dell’Irori, ne prese una tazza e si mise a guardare fuori dalla grande vetrata, pioveva. La foschia rendeva tutto un po’ ovattato. Finì di bere il suo tè e si vestì. Un paio di jeans e un maglione sarebbero andati benissimo, pensò. Uscì, andando a sedersi sotto l’Engawa a fissare quell’aiuola che aveva dato il via a nuovi tormenti.
«Dimmi Chiyo, se potessi imparare un’arte del combattimento, quale sceglieresti?»
Chiyo sobbalzò, non aveva sentito arrivare Hinata.
«Buongiorno Obaasan, che domanda! Non so, forse lo Laidō o il Kendō. Mi è sempre piaciuto guardare i combattimenti con la Katana.»
Sua nonna sorrise, come se stesse inseguendo un ricordo lontano.
«Io e Aiko scegliemmo di imparare il Tessenjutsu,» continuava a fissare un punto dell’aiuola, come se al suo interno potesse trovare tutte le risposte.
«Quando Obaasan? Immagino da piccole.» Notò lo stupore nel suo sguardo, le mise una mano sulla spalla. «Vieni dentro, qui è troppo freddo e umido per parlare.»
La seguì sedendosi sul divano.
 
«Devi sapere che, la fortuna della nostra famiglia iniziò con il tuo bisnonno, Motoki Yamaguchi. Era nato a Tokio, la sua era una famiglia benestante, il suo Otōsan-Hirohito era una persona molto avida. Così iniziò a fare affari con la yakuza, precisamente, con il gruppo yakuza Kenko-kai. Ne gestì per anni le bische clandestine e alcuni bordelli,» si fermò notando la faccia stupita della nipote.
«La yakuza? Credevo che, a parte Natsume, noi non avessimo mai avuto nulla a che spartire con…»
Hinata corrugò la fronte. «Che cosa pensavi Chiyo-Chan, che i soldi ci fossero piovuti dal cielo in primavera con la fioritura dei ciliegi?»
La vide abbassare gli occhi e scuotere la testa. 
«Mi rendo conto che, a volte, sono un po’ ingenua, continua, ti prego Obaasan.»
Hinata sospirò, riprendendo il discorso.
«Alla sua morte Otōsan-Motoki ereditò questi affari, continuando a gestirli, compreso l’Hotel che Otōsan-Hirohito aveva comprato quando aveva circa vent’anni. Era un piccolo Hotel, doveva servire per gli incontri che le famiglie della yakuza tenevano in segreto, una sorta di Svizzera in cui tenere incontri amichevoli. Quando il tuo bisnonno aveva ventisette anni, aveva già in pugno tutta la gestione, e fu allora che conobbe Haha-Hagino. La sposò nel giro di un anno. Quattro anni dopo nacqui io. La mia nascita, e la possibilità di poter gestire il gioco d’azzardo alla luce del sole, gli fecero prendere la decisione di lasciare la gestione dei bordelli e delle bische clandestine, puntando sul gioco d’azzardo legale e trasformando il suo piccolo Hotel nel più grande e prestigioso della città. Questo avrebbe potuto farlo solo passando a un altro gruppo yakuza, l’Ikku-kay. I suoi vecchi amici non gradirono la scelta, per nulla. Avevo sei anni, quando, in un attentato, uccisero Haha-Hagino, anche se il bersaglio era Otōsan-Motoki. Il Kenko-kai, si ritenne soddisfatto ugualmente. Otōsan-Motoki continuò la sua collaborazione con la nuova famiglia, espandendo in modo legale i suoi affari. Il nostro Hotel fu ristrutturato e ampliato, divenne uno dei più grandi di Tokyo. A crescermi fu Kiki Matsuda, questo lo sai, ha vissuto con noi fino alla sua morte, allevando prima Aiko poi te, era diventata una della famiglia. Otōsan-Motoki, poco tempo dopo la morte di Haha-Hagino, conobbe una Geisha, il suo nome era Ikuyo Okamoto. Anche se non si sono mai sposati lei era, di fatto, la sua donna, rimasero insieme fino alla sua morte e per me fu la sorella che non ho mai avuto,» si fermò un attimo per raccogliere i ricordi.
«Ma, l’episodio che cambiò il corso della mia vita e di conseguenza di tutta la nostra famiglia, accadde nell’istante in cui Kenko KondŌ, il capo della famiglia Kenko-kai venne a incontrare Otōsan -Motoki per questioni di lavoro all’Hotel, era il millenovecentottantaquattro e io avevo diciotto anni…»

Ora disponibile esclusivamente su AMAZON 
https://www.amazon.it/DIMORA-DEL-NULLA-HINATA-Vol-1/dp/B0BCCFNS64/

Nessun commento:

Posta un commento